Il grano duro italiano è coltivato stabilmente su una superficie di circa 1.280.000 ettari, comunque inferiore a quella di qualche anno fa quando gli agricoltori potevano beneficiare del cosiddetto “aiuto supplementare”, previsto dalla PAC di allora e in grado di assicurare un reddito almeno sufficiente.
Ad ogni modo, oltre il 10% (circa 137.000 ettari) è oggi dedicato alla produzione biologica, con una crescita che, solo tra il 2015 e il 2016, è stata pari al 45%!
I motivi di questa corsa al bio sono ben individuati: da un lato il consumatore italiano ed europeo è sempre più attratto dagli alimenti prodotti in modo sostenibile e rispettoso dell’ambiente, e il biologico risponde a queste esigenze fornendo ai cittadini una percezione positiva; dall’altro gli agricoltori, al di là di convinzioni ideologiche, sono interessati ai maggiori redditi che le produzioni biologiche sono in grado di assicurare, pur a fronte di costi più elevati rispetto all’agricoltura convenzionale.
Di fatto, la quotazione del frumento duro presso la borsa merci di Milano nel 2018 sta producendo uno spread di 165 tra granella biologica e tradizionale. Nel 2006 tale differenziale era limitato a 39.
Numeri inequivocabili, presentati e discussi in un recentissimo Focus group organizzato da Ismea con Riccardo Meo e Franco Torelli e tenuto a Foggia presso la sede del CREA, con la partecipazione di vari attori della filiera del grano duro.
A fronte di tale crescita, che può rappresentare una nuova frontiera per tutto il settore, anche la ricerca si sta adeguando e di questo aspetto ha parlato il dott. Pasquale De Vita, ricercatore presso lo stesso CREA.
Il dato di partenza è la forte differenziazione varietale in atto. Mentre pochi anni fa le 10 varietà di frumento duro più diffuse sul mercato erano le più utilizzate anche per la produzione biologica, oggi non è più così e ogni zona sceglie le varietà più adatte.
Pertanto la ricerca italiana sul frumento duro è oggi orientata a un ideotipo diverso da quello tradizionale, che presenti caratteristiche ottimali per la coltivazione con metodo biologico.
Gli obiettivi sono sostanzialmente tre: la competitività con le erbe spontanee, l’uso efficiente dell’azoto, la tolleranza alle patologie.
Per il primo si lavora, oltre che sulla genetica, anche su un tipo di semina sparsa (da non confondere con quella a spaglio), in alternativa a quella a righe; si utilizza lo stesso numero di semi di quest’ultima ma uniformemente distribuiti sul terreno, in modo da anticipare la chiusura dell’interfila.
Si studia poi il rapporto delle piante di frumento con funghi micorrizici, che potrebbero migliorare l’assorbimento dell’azoto.
Riguardo le malattie, oltre ad alternariosi e fusariosi si presta molta attenzione alle ruggini, che da qualche anno sono rilevate con maggiore frequenza: la gialla e la bruna in Puglia e Basilicata, mentre in Sicilia si riscontra anche la ruggine nera.
Per ottenere queste nuove varietà il CREA di Foggia lavora in stretta collaborazione con vari Istituti di ricerca presenti in vari paesi.
E’ quanto mai auspicabile che la ricerca italiana torni a recitare un ruolo significativo in un settore tipicamente nostro per storia e tradizione, oggi sempre più colonizzato dai capitali esteri.
Un’altra questione importante e mai del tutto risolta è quella relativa ai controlli. Gli agricoltori chiedono che, per dare spessore e maggiore credibilità ad una filiera così importante (il biologico è il prodotto tracciato per eccellenza!), anche i trasformatori si attivino per ottenere controlli ineccepibili ed evitare qualsiasi tentativo di truffa, da cui neanche il settore del grano duro bio è purtroppo esente.