I numeri parlano chiaro: negli ultimi 15 anni la superficie coltivata a mais in Italia si è quasi dimezzata e solo nell’ultimo lustro la produzione è scesa da 8 a 6 milioni di tonnellate di granella.
La storia più recente del mais italiano è iniziata negli anni sessanta con l’introduzione degli ibridi F1 e successivamente con l’ingresso dei tipi “a foglia eretta”, che hanno prodotto un vero boom degli investimenti, soprattutto in Pianura Padana e in alcune aree del centro-sud a vocazione zootecnica, come il Casertano.
La gran parte delle coltivazioni è destinata alla produzione di granella per l’industria mangimistica, un 10-15% all’insilato e frazioni minori all’industria dell’amido e all’alimentazione umana.
All’inizio degli anni 2000 è cominciata una crisi sempre più acuta e, al momento, apparentemente irreversibile, causata da fattori economici e tecnici:
1. bassi prezzi di mercato, principalmente dovuti agli elevati stock di cereali a livello mondiale;
2. alti costi di produzione, in particolare quelli relativi a irrigazione, energia, mezzi tecnici (soprattutto fertilizzanti e fitofarmaci);
3. gravi problemi fitopatologici, con riferimento agli insetti Diabrotica (di provenienza esotica) e Piralide, che, causando lesioni alla granella, apre la strada a funghi produttori di micotossine responsabili di gravi patologie, incluse quelle cancerogene, su animali e uomo.
Le conseguenze sono evidentemente drammatiche: da un lato una redditività bassa o addirittura insufficiente per i coltivatori, dall’altro numerose partite di granella inutilizzabile per produrre mangimi e pertanto ulteriormente deprezzata.
La perdita di produzione lorda vendibile è stimata complessivamente in 3,6 miliardi di euro, un danno pesante per la nostra agricoltura.
La progressiva disaffezione degli agricoltori verso una coltura fino a pochi anni fa popolarissima ha causato un forte aumento del deficit del mais, il cui fabbisogno è oggi coperto per il 53% da importazioni. Queste, provenendo da paesi come USA, Argentina e Brasile, sono costituite quasi interamente da prodotto OGM.
È evidente che i problemi ricadono su tutta la filiera: le multinazionali del seme e della chimica, i distributori di mezzi tecnici, gli stoccatori e i commercianti di granella, che dal mais ricavano un fatturato importante, ma anche, per i motivi descritti, l’industria dei mangimi, fino ai produttori di eccellenze alimentari DOP e IGP famose nel mondo (ad esempio formaggi e salumi), derivate da allevamenti zootecnici che hanno nel mais e derivati la principale fonte di alimentazione.
Il maggior costo per la nostra bilancia agro alimentare è pari a 1,2 miliardi di euro.
Questa situazione non poteva non attirare l’attenzione del Ministero delle Politiche Agricole, che ha raccolto le preoccupazioni di tutta la filiera, convocando le parti per l’elaborazione di un progetto comune per rilanciare la coltivazione.
Tale progetto, presentato nelle scorse settimane, si articola in vari punti.
Per dare maggiore redditività agli agricoltori si prevede la sottoscrizione di accordi di filiera, basati sulla cooperazione tra le parti, che garantiscano all’industria un prodotto in quantità adeguata e dotato delle caratteristiche qualitative richieste (in termini di sanità del prodotto e assenza di OGM) e ai maiscoltori il riconoscimento di una parte del valore aggiunto.
Ottime intenzioni, ma difficili da attuare: l’industria sarà in grado di valorizzare un prodotto come la granella di mais made in Italy, quando l’offerta mondiale è abbondante?
L’altro fronte è quello tecnico e prevede una serie di mosse, quali: promozione e valorizzazione di innovazioni nell’irrigazione, nella difesa, nelle tecniche di coltivazione e nelle applicazioni genetiche; una rete pubblica di confronto varietale per la valutazione tecnologica e sanitaria; l’aggiornamento delle strutture e la promozione dello stoccaggio differenziato; il sostegno dello sviluppo dei prodotti derivati dalla trasformazione.
Si tratta di una serie encomiabile di iniziative, che se attuate in modo organico e opportunamente sostenute, in termini economici e di comunicazione, potranno portare qualche beneficio alla causa, ma difficilmente eliminare le problematiche descritte.
Infatti il mercato è sovrano nell’influenzare le scelte degli operatori e le previsioni a breve-medio termine confermano un’offerta sufficiente a coprire la domanda mondiale, quindi prezzi stabili sui bassi livelli attuali, una situazione difficilmente migliorabile da interventi esterni come ad esempio quelli sulla filiera.
La tecnologia può diminuire i costi e aumentare il reddito, ma richiede investimenti e risorse.
Oggi la coltura del mais appare come un “lusso” in molte aree, dove le condizioni ambientali, già di per sé non ottimali, sono ulteriormente peggiorate dagli andamenti climatici anomali di questi anni, per cui sorge la domanda: vale la pena di remare contro corrente, cioè insistere ad ogni costo per mantenere il mais in zone non più vocate ad una coltivazione redditizia?
L’impressione di chi scrive è che la superficie a mais sia destinata a un’ulteriore diminuzione e che la quota “fisiologica” di questa coltura in Italia si attesterà entro pochi anni intorno ai 500.000 ettari, vale a dire gli areali più freschi di Piemonte, Lombardia e alto Veneto e Friuli, ove perlomeno le condizioni ambientali permettono una buona potenzialità produttiva.
In effetti, per gli agricoltori esistono già oggi rimedi validi, facili da applicare e a basso costo, cui il progetto ministeriale avrebbe dovuto fare riferimento come soluzione alternativa.
Si tratta di convertire parte della maiscoltura ad altre specie, in grado di sostituire il mais nella catena alimentare.
La più interessante è sicuramente il sorgo da granella: pur soffrendo come gli altri cereali di basse quotazioni di mercato, è una coltura rustica, resistente agli stress termici ed idrici molto più del mais, non affetta dalle patologie di quest’ultimo, quindi in grado di produrre una granella sana, a basso rischio di micotossine, adatta a produrre mangimi e insilati di qualità concorrenziale a quella del mais, il tutto a un costo di produzione molto inferiore e quindi altamente vantaggiosa per l’agricoltore.
Un discorso analogo si può fare per il frumento.
Allora, perché non si procede? Semplice: tutta la filiera sostiene il mais, che fornisce un migliore fatturato agli operatori; a tutti, meno che agli agricoltori!
Pertanto è ora che dall’alto venga reimpostata una corretta strategia: sostenere il mais nelle aree ad alta vocazione con le iniziative previste nel progetto ministeriale; favorire le colture alternative nelle zone dove il mais è in crisi e non offre reddito agli agricoltori. È ora anche che questi ultimi si accorgano che hanno la soluzione a portata di mano e che l’industria mangimistica converta la sua domanda su prodotti più rispondenti alle proprie esigenze.