La grande crisi globale ha avuto inizio nel 2008, a seguito del fallimento Lerhman Brothers. Un avvenimento che sarà ricordato a lungo e che ha investito molti settori economici. Molti, ma non tutti: l’export dei nostri prodotti agroalimentari, infatti, dal 2007 è cresciuto del 5,3% annuo, raggiungendo la cifra di 41 miliardi di euro.
Si sono consolidate le vendite del made in Italy presso i clienti storici, come Stati Uniti e Gran Bretagna, ma anche verso mercati più recenti come quelli orientali, Giappone e Cina su tutti.
Ne ha dato notizia Raffaele Borriello, il direttore generale di Ismea, l’Istituto che studia il mercato agricolo alimentare, nel corso del convegno “Valorizzare le filiere nazionali del frumento duro”, recentemente organizzato da Italmopa a Bologna.
Un importante contributo a questo successo del nostro sistema agroalimentare è stato dato dai derivati del frumento, con una crescita che negli ultimi 10 anni ha registrato il 100% per i prodotti da forno e il 68% per la pasta, una delle maggiori tipicità del nostro paese.
Pertanto la crisi ha comunque favorito la qualità dei nostri prodotti.
Anche le prospettive a medio termine sembrano essere positive, se consideriamo che nel 2021 si stimano 12 milioni di nuovi ricchi, soprattutto nelle economie non più solo emergenti, ma ormai dominanti, come India e Cina. Nuova ricchezza significa migliore alimentazione e qui il made in Italy è un marchio ancora imbattibile o quasi. Bisogna però difenderlo adeguatamente dai continui assalti dei numerosi prodotti con marchi ingannevoli e qualità molto inferiore, con prezzi ovviamente bassi.
Le fortune dell’export hanno in qualche modo coperto le criticità del mercato interno, dovute a bassa redditività per la volatilità del mercato e per gli oneri alle imprese, tra i più alti in Europa, ma anche ai cambiamenti climatici che penalizzano impietosamente anche gli agricoltori di serie A.
Bisogna investire sul mercato interno, premiando e proteggendo le produzioni locali e orientandosi verso le nuove tendenze di mercato, che vedono un calo netto della tradizionale pasta di semola di grano duro (-7% negli ultimi 4 anni), a favore di altri tipi di prodotto: senza glutine, con farina di kamut, o di leguminose, o miste frumento/orzo, o integrali, e altri.
Una sfida difficile e affascinante per l’intera filiera del grano duro.