In questi giorni in Europa si sta discutendo della nuova PAC, o politica agricola comune, l’insieme delle norme che l’Unione Europea ha deciso di darsi per governare il settore agricolo.
Se n’è parlato a Roma in ambito Fidaf, con l’intervento di Giuseppe Cornacchia, uno dei maggiori esperti del settore.
Si comincia a parlare di PAC nel 1962, quando i 6 stati membri di allora varano una serie di norme con lo scopo essenziale di rendere l’agricoltura europea competitiva nei riguardi di quella statunitense e di altri paesi.
In quegli anni la parola d’ordine è “compensazione”, che si concretizza nel garantire un prezzo congruo agli agricoltori, per esempio con l’aiuto all’esportazione.
Negli anni ’70 compaiono i primi aiuti strutturali, 20 anni più tardi si introduce il disaccoppiamento, cioè l’aiuto legato alla superficie e non alla produzione. Erano anni di surplus produttivi, almeno in Europa.
Nel 2018 l’EU spende nella PAC il 40% del proprio bilancio e all’Italia arrivano quasi 60 miliardi di euro, vale a dire il 10% della spesa totale, pari al 25% del reddito agricolo nazionale. Nonostante questa cifra, sicuramente significativa, è palese che i guadagni dell’imprenditore agricolo siano bel al disotto della media italiana delle retribuzioni. Questo vale per l’Italia e per la gran parte degli stati membri: ciò significa che uno degli obiettivi principali della PAC non è stato (ancora) raggiunto. Uno dei motivi è l’incapacità degli interventi adottati di influire su fattori che influenzano pesantemente il reddito agricolo, come la volatilità dei prezzi e le conseguenze dei cambiamenti climatici, oggi tre volte più influenti rispetti a 30 anni fa.
La nuova PAC partirà nel 2022 o nel 2023 e dovrà affrontare uno scenario profondamente cambiato negli ultimi anni, allineandosi ai grandi obiettivi globali fissati dall’ONU per il 2050: tra questi, sconfiggere la fame, rispettare l’ambiente, adottare modelli sostenibili di produzione.
I vecchi concetti sono superati: il 40% della spesa della EU non può essere dedicato al 3% della popolazione.
Ecco quindi la nuova parola d’ordine: “sostenibilità”, da realizzarsi attraverso alcuni irrinunciabili strumenti.
Innanzitutto l’innovazione, in campo genetico, agronomico, tecnologico. Ci sono molte proposte sul mercato, ma alle volte manca una puntuale informazione agli agricoltori, in altri casi la politica stoppa le novità scientifiche. L’agricoltura di precisione, la digitalizzazione e la robotica, l’editing genetico sono strumenti di grande potenzialità che devono essere messi a disposizione di tutti.
Poi c’è il territorio, un insieme di risorse da proteggere e valorizzare e qui il ruolo degli agricoltori è e sarà fondamentale. Alla base però dev’esserci la scienza, non la nostalgia del passato o l’illusione di pratiche empiriche.
Infine c’è la filiera, un sistema di gestione e sviluppo delle produzioni dove tutte le parti in causa, partendo dai produttori e arrivando ai consumatori, condividono gli obiettivi e trovano soluzioni di comune interesse.
L’Europa ha bisogno di futuro, ora più che mai.