Ricerca genomica: l’Italia batte un colpo e risponde: “presente”.
E’ successo a Bologna, alla facoltà di Biotecnologie, dove gli stati maggiori della ricerca pubblica italiana si sono dati appuntamento in occasione della annuale conferenza sul tema, quest’anno intitolata “Le nuove frontiere dell’editing dei genomi delle piante coltivate”.
La genomica è una scienza giovane, ma non è propriamente una novità: se ne parla dall’inizio degli anni ’80, quando fu sequenziato il genoma di un virus, anche se per arrivare a quello di un organismo vivente (un batterio) si dovrà aspettare il 1995. Successivamente verrà pubblicato il genoma della prima pianta. Nel frattempo si era cominciato a lavorare anche sul genoma umano.
Conoscere la mappa genetica di un individuo significa sapere la posizione dei singoli geni e questo apre le porte a tecniche di ricerca profondamente innovative ed efficaci. Parliamo del genome editing, inaugurato nel 2012.
Si può intervenire su un singolo carattere, come la resistenza alla siccità, utilizzando individui, per esempio una pianta selvatica, che ne sono dotati, e inserendolo in una pianta coltivata.
Il risultato è ottenibile in tempi relativamente brevi, con un decisivo risparmio di risorse economiche e di lavoro. Inoltre la tecnologia è praticamente alla portata di tutti o quasi i centri di ricerca, rivelandosi quindi “democratica” e di ampio utilizzo, evitando il rischio di monopolizzazioni.
In occasione dell’incontro di Bologna si è presentato lo “stato dell’arte” del genome editing.
Questo, in altre parti del mondo diverse dall’Europa, dove alcuni lo vedono come una minaccia similmente agli OGM, ha già prodotto i primi risultati concreti: una varietà di soia ad alto contenuto di acido oleico, un mais tipo waxy, un fungo prataiolo la cui polpa imbrunisce molto lentamente.
Vi sono poi decine di lavori in corso per migliorare varie piante coltivate.
Anche il progetto del CREA Biotech-Biotecnologie sostenibili per l’agricoltura italiana, finanziato dal Mipaaf con 6 milioni di euro, dichiara obiettivi ambiziosi.
Ad esempio la resistenza alle malattie della vite, con una novità importante rispetto al passato: apportare geni di resistenza mantenendo inalterate le caratteristiche proprie del vitigno. Se consideriamo che sui 3,5 milioni di ettari di vigneti della EU vengono annualmente distribuiti 60.000 tonnellate di fitofarmaci, si può ben capire quanto sarebbe utile per l’ambiente e per il portafoglio dei viticoltori disporre di varietà resistenti, la cui coltivazione non sarebbe più dipendente dalla chimica.
Altri bersagli del progetto sono la resistenza ai fattori abiotici, la produttività, il miglioramento della qualità che porterebbe, tra l’altro, al frumento a basso indice di glutine o all’uva apirene.
Una strada virtuosa che i politici europei devono favorire in ogni modo e non, come ora succede, tenere bloccata.
Il medioevo è terminato da secoli, pensiamo a come sfamare 9,5 miliardi di persone entro il 2050!