Il termine latifondo, letteralmente “vasto podere” secondo l’etimologia latina, richiama l’idea di un’agricoltura antica. In effetti fu instaurato in epoca romana e si consolidò durante il medioevo. Oggi, almeno da noi, è pressoché scomparso, soprattutto per energici interventi legislativi. In Italia, e non solo, il latifondo aveva prodotto forti ineguaglianze sociali ed economiche, causa di rivendicazioni e spesso di conflitti anche violenti, fino alla metà del secolo scorso.
In molte aree del nostro pianeta non si può dire che il fenomeno sia superato, anzi sta ritornando, magari sotto forme e processi diversi.
Il land grabbing nel Terzo Mondo
La traduzione di land grabbing non è molto lusinghiera: significa “arraffare i terreni”, o, più gentilmente, prendere, accaparrare. Il fenomeno nasce all’inizio del XXI secolo e consiste nell’acquisto o nell’affitto di vaste distese di terreno agricolo di Africa o Sud America o sudest asiatico, compiute da paesi (o loro istituzioni) come Regno Unito o Cina, ma anche da USA, Corea del Sud e altri. La causa scatenante di questa nuova forma di pseudo colonizzazione economica è la crisi dei prezzi del 2007 e anni successivi. Ciò ha spinto alcuni paesi a prendere possesso a vario titolo di aree coltivabili in altre nazioni, per assicurare alla propria popolazione il rifornimento e la sovranità alimentare. Anche la produzione di biocarburanti rientra negli obiettivi delle acquisizioni transnazionali. Si parla soprattutto di contratti di affitto, stipulati normalmente tra industrie agroalimentari o fondi d’investimento da una parte, e gli stessi Stati dall’altra, visto che in molte aree i terreni agricoli sono posseduti o gestiti dai rispettivi governi.
Secondo una stima della Banca Mondiale, il fenomeno riguardava nel 2010 circa 50 milioni di ettari, ma si ritiene che le cifre reali siano molto superiori, dato che una parte dei contratti esaminati non riportava la superficie. Questi valori generano una crescente preoccupazione per i risvolti economici e sociali che ne possono derivare, soprattutto in forma di diseguaglianze a discapito delle popolazioni più povere.
Una ricerca di International Land Coalition rivela che attualmente nel mondo l’1% dei proprietari terrieri controlla e gestisce il 70% dei terreni coltivabili. Oltre al land grabbing, questa forte tendenza alla concentrazione deriva dall’urbanizzazione di ampie fasce delle popolazioni rurali avvenuta dagli anni 80 dello scorso secolo, dovuta alla scarsa remuneratività offerta soprattutto dalle piccole proprietà rurali e dalla difficoltà di accedere al credito da parte dei piccoli agricoltori. Tutto questo ha una forte ricaduta economica e sociale. Basti pensare al fenomeno delle migrazioni dal sud verso il nord del pianeta.
In Italia la situazione è all’opposto
La tendenza alla concentrazione non riguarda il nostro Paese. Semmai il problema è l’eccessiva frammentazione aziendale: una ricerca Istat del 2016 ha rilevato in Italia una superficie media di circa 11 ettari, con ben 1.145.680 aziende agricole in attività. Anche da noi vi è in verità una tendenza all’accorpamento, ma con tempi piuttosto lenti. Se consideriamo che la superficie media dei paesi EU è di 16 ettari, con 130 ettari in Repubblica Ceca, 94 ettari nel Regno Unito, 60 in Francia e Germania, si può capire la difficoltà della nostra agricoltura a mantenere un buon livello di competitività.
Attenzione quindi a dare per scontato che “piccolo è bello” sempre e comunque e che la salvezza sia un’agricoltura fatta di piccole proprietà, come sostenuta da alcuni. Le grandi sfide di questo secolo richiedono un’agricoltura professionale per centrare gli obiettivi di produzione e sostenibilità, attuata su dimensioni equilibrate per garantire redditività ai produttori.