Oggi, nel nostro pianeta, il 70% delle calorie è prodotto da 4 sole colture. Il sistema alimentare mondiale dipende in sostanza da mais, frumento, riso e soia. Da esse derivano gli alimenti base di gran parte del genere umano, o le risorse per produrli (vedi gli alimenti di origine zootecnica), o ancora importanti derivati come il pane, i prodotti da forno, la pasta.
Ovviamente se gli agricoltori, le aziende sementiere, l’industria di trasformazione e i consumatori preferiscono queste coltivazioni e i prodotti da esse derivati, ci sono dei fondati motivi: l’adattabilità ai vari ambienti, la capacità di produrre in termini di quantità e qualità, l’appetibilità alimentare e, in ultima analisi, la redditività hanno reso vincenti queste specie, quasi monopolizzando le (sempre più limitate) rotazioni nei diversi continenti.
Ora, se su un piatto della bilancia hanno un peso notevole l’affidabilità e l’efficienza di questi sistemi produttivi, non possiamo ignorare che sull’altro piatto gravano fattori negativi, la cui importanza tende ad aumentare.
Innanzitutto coltivare poche specie significa attuare rotazioni strette e chi ha studiato agronomia sa che l’inevitabile conseguenza è un impoverimento dei terreni, in termini di nutrienti e sostanza organica, ma anche di struttura fisica del suolo. In una parola tutto ciò significa perdita di fertilità.
Inoltre più le colture sono ripetute nello stesso ambiente, più tendono a diventare bersagli sempre più grandi e facili da colpire per molti patogeni vegetali e organismi animali, con il rischio concreto di indebolire sensibilmente la catena alimentare. Qualche esempio? Basti pensare ad insetti come piralide e Diabrotica per il mais, cimice asiatica per la soia, oppure nematodi per il riso, o ancora il fungo della fusariosi per il frumento, e la lista potrebbe purtroppo allungarsi.
L’agricoltura del 2000, per centrare i suoi obiettivi globali, deve essere produttiva e sostenibile, e non può permettersi punti deboli come questi.
Pertanto da più parti si ritiene sempre più necessario allargare in qualche misura l’importanza di alcune piante per le produzioni alimentari, utilizzando la biodiversità e pescando tra le oltre 6.000 specie coltivabili.
I nuovi gusti dei consumatori aiutano in questo senso, tracciando nuove tendenze alimentari, ad esempio con la quinoa o, nei nostri ambienti, il farro, ma si tratta di nicchie di mercato, destinate a rimanere tali.
Eppure le opportunità non mancano: pensiamo ad esempio al sorgo, un cereale adatto a produrre granella e insilato di qualità, che potrebbe sostituire una parte della superficie a mais in Europa e USA, grazie alle ridotte esigenze di mezzi tecnici e quindi ai costi molto inferiori. Non solo: il sorgo è decisamente competitivo rispetto al mais anche per la resistenza a vari patogeni e insetti, nonché a fattori abiotici come alte temperature e siccità. Ha un solo difetto: produce un fatturato inferiore al mais e quindi la filiera continua a sostenere quest’ultimo, rischiando di andare contro l’interesse degli agricoltori.
Non mancano anche le alternative alla soia per produrre proteine: dal pisello zootecnico, all’erba medica, ad altre leguminose.
Differenziare le coltivazioni per aumentare la sostenibilità sarà una delle prossime “parole d’ordine”.