Vi sono tecniche agronomiche in grado di contrastare il clima? Sembra di sì, secondo un recente studio dell’University of Kentucky basato su ben mezzo secolo di osservazioni.
Ormai è innegabile che un significativo cambiamento climatico sia in atto, a livello globale.
Lo testimonia, a titolo di significativo esempio, l’aumento di alcuni valori registrati in nord Italia negli ultimi 40 anni: la somma termica (da 1300 a oltre 1800); la temperatura media primaverile-estiva (quasi tre gradi in più); la distribuzione delle piogge nel corso dell’anno, caratterizzata da lunghi periodi siccitosi seguiti da precipitazioni in stile tropicale. Le conseguenze sulle produzioni agricole di ogni specie e sulla qualità dei prodotti sono ben note. L’effetto principale è la perdita di una “normalità” climatica e quindi di una stabilità produttiva, con riflessi positivi o negativi (a seconda dei casi) su stoccaggi finali e prezzi. Si possono verificare situazioni come quella del 2007-2011 (bassa disponibilità di riserve e prezzi alle stelle con conseguenti “rivolte del pane” nei paesi più poveri) o quella attuale (stoccaggi finali in aumento e prezzi delle commodities depressi).
Meno facile è capire le effettive cause dei cambiamenti climatici.
Sono state fatte varie ipotesi, che qui non vengono affrontate. E’ stato comunque dimostrato che l’anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata di oltre il 35% dall’inizio dell’era industriale e questo porta ad un incremento della temperatura atmosferica, per il fenomeno noto come “effetto serra”.
L’agricoltura, spesso accusata di essere inquinante, in questo caso è palesemente inquinata, ma può fornire alcune soluzioni benefiche per se stessa e per l’ambiente.
Nel 1970 Bob Blevins, scienziato dell’University of Kentucky, iniziò una sperimentazione in un’azienda agricola posta nell’area di Lexington, consistente nel confrontare gli effetti della concimazione azotata su terreni tradizionalmente coltivati a mais e terreni con zero lavorazione, con segale in copertura invernale seguita da mais. Questa prova è continuata fino ai giorni nostri, permettendo di compiere osservazioni lungo un periodo molto esteso e quindi altrettanto significativo per i risultati forniti. Questi indicano chiaramente che entrambi i terreni hanno reagito positivamente alla somministrazione di azoto, ma quello “no-till” ha costantemente prodotto di più.
La causa principale sembra essere il maggior contenuto di sostanza organica nel terreno non lavorato, il che significa più nutrienti a disposizione e maggiore ritenzione dell’acqua. Più in dettaglio, la cover crop ha dimostrato di agire sinergicamente con la non lavorazione, rallentando la decomposizione del carbonio nel suolo ed aumentando l’assorbimento dello stesso elemento dall’atmosfera. Il merito principale di questo fenomeno sembra individuato del carbonio presente nella biomassa proveniente dalla coltura di copertura e dai residui di coltivazione del mais.
Analoghi studi sono in corso in altri stati dell’Unione, con lo scopo di arrivare ad individuare le pratiche agronomiche in grado di fornire zero emissioni di carbonio e migliorare così il bilancio di questo elemento.